sabato 23 giugno 2012

Delirio nero corvino


A volte, soltanto passeggiando, ti capita di vivere dei veri e propri sogni erotici, quelli che ti spingeranno a rincorrere una tastiera e a buttartici sopra, a capofitto, senza riuscire a fermare il tuo flusso di pensieri. Fissare un istante, scolpire su carta un’immagine cristallizzatasi sulla retina. E’ urgenza, è delirio. E non importa a chi la farai leggere, questa pagina di diario senza capo né coda, non ha senso chiederti adesso se poi rileggerai mai questi appunti. Da quanti anni non rileggi quello che scrivi?
Sai solo che oggi è un sabato, è un 23 giugno, un giorno ai margini iniziali dell’estate, uno dei tanti (o forse troppo pochi?) che ancora ti saranno concessi, bigliettini da strappare con uno o due numeri tratteggiati in rosso, su quel bianco calendario tendente ad ingiallire col trascorrere del tempo.

Mi osservo, mi rivedo, mi racconto.

Passeggio in città, solo, perso tra vie caldissime, alla ricerca di una nota cartoleria; lì, tra commesse zelanti sparpagliate nei vari reparti, avrei acquistato delle cartucce per la mia stilografica. Servirà, poi, tanto inchiostro? E’ un pezzo che non scrivo pensieri su un foglio di carta, da tempo non annoto emozioni, titoli di libri, frasi solo percepite, poesie di cui ricordo magari l’incipit afferrato in televisione, e canzoni che ritroverò alla radio nei giorni a venire, partendo da qualche strofa. E’ tanto che non vivo così, con la gioia di arricchirmi e respirare tutto ciò che mi circonda, e che si appalesa soltanto se ho l’animo predisposto, se mi sento “in amore” con la vita, se ho voglia e necessità di spendermi.

Le vie si incrociano e non riesco a ricordarmi esattamente la strada, del resto le città adottive vanno vissute così, vagabondando il corpo dove capita. Cerco quelle tende rosse, quei locali freschi che odorano di antico, perché è dal 1872 che quell’esercizio commerciale sopravvive alle intemperie economiche e all’evoluzione della specie. Ma le penne, là dentro, non devono essere cambiate poi molto, se pensiamo a marche con una considerevole tradizione alle spalle, per esempio Montblanc o Waterman. Alcune stilografiche, tra quelle corsie, le avrà provate e comperate persino Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, uno dei miei scrittori preferiti, il simbolo letterario della città puritana e decadente in cui sto passeggiando, espressione dell’uomo borghese di allora, senza valori importanti per i quali, in quel momento storico, valesse la pena lottare, sognare, urlare, farsi male. Figurarsi oggi …
Sono convinto, sì, che anche Ettore, in un modo o nell’altro, abbia avuto modo e piacere di seguire, con la coda dell’occhio, il volteggiare di qualche fanciulla tra scaffali e mensole, occhi dalle ciglia sfuggenti, alla ricerca di un colore, di un inchiostro, di un segno da lasciar sbiadire, come vuole la vita, come impone l’esistenza in cui ci hanno gettato. Risuonano quelle parole:

 “Perché siamo tutti un branco di bestie che rubano, violentano, uccidono, feriscono, soffrono, piangono e amano solo per ingannare la morte …”

[Isabel-Clara Simò, La selvaggia, Anabasi]
E’ davvero un voler sputare in faccia alla morte, ogni nostro affannato e goffo tentativo di amare, di perderci negli occhi altrui, nel corpo e nell’anima di un essere “altro da noi”. Viviamo per costruire attimi di Paradiso necessari a rimandare l’ultimo bigliettino di calendario, ad evitarne il pensiero, la sola idea.

Amare è l’unica cosa essenziale, il resto sarà sbriciolato e sparpagliato dal vento, nelle direzioni più impreviste.

La gente attorno a me continua a correre affannata, sudata. Voglio prendermela con comodo, voglio recuperare il mio tempo, voglio starmene con me. Finalmente.  
Meno male che oggi c’è un intenso vento di bora, tiepido, che accarezza e non disturba, che liscia il viso come farebbe un foulard di seta sulla pelle, e fa sparire le goccioline di sudore che la cute espelle, costretta com’è a difendersi dai raggi di un sole prepotente e accecante. In lontananza, il mare rimbomba, impetuoso, sugli scogli, e nugoli di surfisti affrontano gli aliti di vento del Golfo, col coraggio di chi sa bene che, prima o poi, si finirà in acqua e ci si dovrà rialzare, stendendo le vele e ricominciando a gonfiarle per correre di nuovo incontro all’avventura. C’è ancora un’avventura, gorgheggiava negli anni ’80 la mia amata Anna Oxa:

Non vedi che questa città è un dormitorio pubblico
e quando poi si sveglierà un manicomio cosmico sarà, però
c'è ancora un'avventura c'è ancora un'avventura per noi
c'è ancora un'avventura c'è ancora un'avventura se vuoi.


Ci può essere sempre un nuovo incontro, un istante che non ti attendi, una sorpresa. Dietro l’angolo buio in cui pensi di esserti infilato ....

E intanto il caldo si fa più soffocante, e il vento continua a mitigare il senso di sfinimento.

La bora … amata, amatissima, soprattutto d’inverno, quando urla fuori dalle finestre e ti fa apprezzare il tepore del tuo nascondino, della cuccia in cui vivi. La amo, ventosa e impertinente, quando accarezza la mia solitudine su una roccia carsica levigata da anni di flutti e di mareggiate, tra le grida di bianchi uccelli a chiederti del cibo. La odio non appena mi proietta addosso i resti che abbandoniamo per le strade, nella nostra maleducazione. Sì, forse fa bene a darci qualche schiaffo di educazione, lei che funge da straordinario spazzino. Ma le particelle non si distruggono, possono solo spostarsi più in là, tra la nostra indifferenza quotidiana. E' roba altrui, diciamo. E la odio quando soffia a farmi pensare che è bello avere delle mura a proteggerti, ad attutire i suoi fischi continui contro le finestre, mentre le urla, quelle umane, ed i dolori, e le sofferenze restano dentro, mentre le vorremmo lanciare, gridare fuori di noi, per liberarcene, alla velocità del vento …

E’ curioso come alcuni angoli di città, certuni angoli nascosti, sembrino moltiplicare la forza del vento; questo, proprio nel momento in cui meno te l’aspetti, ti si proietta addosso come su una vela, gonfiandoti la camicia, facendo rabbrividire i sacchetti che porti con te, bianchi fantasmi riciclati, costringendoti talvolta a ruotare il viso, per non ricevere una sferzata d’aria in pieno volto.

Attraverso la strada e, da un angolo, da un filo d’ombra, compare lei, sospinta dal vento, una perla nera nel giallo ocra incartato tra l’azzurro di cielo e mare. Impossibile non fermarsi col fiato in gola, impossibile non aspettare il suo passaggio davanti a me. Forse 40 anni, sicuramente una vera Donna. Esattamente ciò che desidererei per bruciare dentro, oltreché fuori. Capelli ricci, folti, lunghi, corvini. Neri, maledettamente neri, neri come la pece. Mi hanno sgridato, e a ragione, perché a volte mi confondo tentanso di distinguere tra una Donna mora ed una castana. No, stavolta quei capelli erano dello stesso colore degli occhiali che le coprivano gli occhi, e neri come quel vestito, sottile, delicato, impudente, che indossava. Un vestitino intero, lungo fino a metà coscia, nero, totalmente nero, forse di seta, comunque liscio, carezzevole. Attorno alla vita una cinturina, sottile, di color beige. La lascio passare, sfila per me. Noto immediatamente i suoi capezzoli, tesi come aghi, avvolti dal tessuto serico, inturgiditi dal vento e dal contatto, continuo, con la stoffa svolazzante. Non indossa alcun reggiseno, e lo capisco quando i miei occhi si appoggiano sulla sua schiena. Tanto castigata e protetta lei, davanti, quanto scollata, aperta, audace, dietro. Ha il corpo perfettamente abbronzato, e le gambe tornite e ambrate, che svettano su scarpe dal tacco altissimo, maculate in stile animalier, aperte davanti e chiuse dietro, esattamente l’opposto del vestito. La osservo estasiato, sono istanti infiniti, anche se mi sta semplicemente scorrendo di lato, alla ricerca di un negozio. Pure lei. Persi entrambi, forse a cercare un qualcosa per dare un senso al niente che siamo, e saremo.

Scatta in quell’istante, in quel preciso istante, il mio fermo-immagine … una raffica di bora calda ci esplode addosso, e le fa salire il vestito, glielo fa attorcigliare ed aderire sul corpo. Noto che uno spacchetto laterale, sbarazzino, lascia scoperta la coscia destra, lei non se ne avvede, o non le interessa proprio porvi rimedio, probabilmente neppure mi ha notato, e le sono ormai dietro. Non scorgo segni di intimo, non ci sono righe bianche da costume. L’abito nero si adagia sulla pelle della gamba, vi si avvita attorno, e, svolazzando, riesce a svelarmi l’inguine. Che sensazione, una gamba svettante sui tacchi, dall’attaccatura al collo del piede, abbronzata, con il vestito aperto senza vergogna attorno al centro della sua femminilità.

Mentre la guardo, fermo immobile, lei si infila in un negozio di cianfrusaglie cinesi. Nuda, completamente nuda sotto quell’abitino nero così lieve, così carezzevole sul suo corpo. Così aderente per le folate di bora.

Ripenso alla brevissima poesia che riesce, ogni anno, ad ispirarmi l’immagine dell’estate:

Verrà l'estate
e avrà il tuo vestitino

(2004, Corrado Calabrò, da "la stella promessa", Mondadori)

E’ un anno strano, stranissimo, questo. Perché è l’anno in cui, al mio solito delirio per le donne dai capelli rossi, provocato dal trauma adolescenziale del primo bacio all’henné, si è sostituito il sogno della donna mora, corvina, con la pelle ambrata, sensuale e profumata. Scura, con un retrogusto di vaniglia o di cocco. Capelli ricci, neri, difficili da sgrovigliare, sempre arruffati, tanto che spazzolarli sarebbe come aprirsi un varco con mani e braccia nella foresta amazzonica.

Ed ho un’amica, bellissima, proprio così, mora. Corvina. Sensuale. Dal corpo mozzafiato. Che mi ha lasciato accarezzare i suoi capelli, e mi ha abituato a stare accanto alla sua bellezza, a conviverci, ricordandomi sempre che lei non è solo pelle, non è solo una splendida Donna, ma è anche soprattutto intelligenza, costanza, presenza, fragilità.

Avrei voluto tornare indietro, entrare in quel negozio di cineserie, sorriderle e dirle: “lei è un incanto, e sarà più tardi  la mia scrittura, una pagina di ventosa sensualità”.

E vorrei che la mia amica intima, un giorno, mi raccontasse di essere uscita proprio così, nella sua caotica città, sola e solo con quel vestitino con gli spacchetti laterali, scollato dietro e timido davanti, completamente nuda, dentro. Vorrei che mi raccontasse le sue sensazioni, avvolta in quel guanto nero, delicatissimo ed eccitante. E amerei sentire da lei la descrizione del peso derivante dagli occhi degli uomini incontrati, alcuni impreparati, altri incuriositi, tutti rapaci e predatori. Chissà se, a sua volta, passeggiando alla ricerca di un negozio di cose inutili, ispirerà una scrittura maschile, e farà muovere una tastiera, trasformandola in suono, ad imitare il ticchettio dei suoi tacchi sul marciapiedi.

Oh, che strani pensieri maturano, passeggiando per città …

A cercare una perla nera tra gente sconosciuta, insapore e incolore. Perso tra caldo e vento, mentre il giorno scorre via, a esaurire un altro 23 giugno.

Resteranno solo queste parole, e questa pagina di diario. Che lei non leggerà, ed io non rileggerò. 

Eclissi

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